Cura e compassione vista da un praticante di Yoga

Spesso, quando parliamo di cura e compassione, immaginiamo un atto di empatia così profonda da condurci a portare il peso dell’altro, quasi come se il nostro dovere fosse quello di entrare nel suo dolore, di abitare e condividerlo per alleviarlo. Questo approccio, per quanto mosso dalle migliori intenzioni, rischia di trasformarsi in una trappola che non solo non libera chi soffre, ma finisce per intrappolare anche noi in quella stessa sofferenza.

La compassione, nel suo significato più profondo, non implica necessariamente il soffrire insieme all’altro. Essere compassionevoli non significa perdere la nostra centratura, la nostra serenità interiore, per farci carico del dolore altrui. È invece un atto di amorevole cura che si manifesta attraverso una presenza ferma e consapevole, uno spazio di accoglienza che non si lascia sopraffare dalle emozioni. La compassione, quando genuina, si esprime in uno spazio di apertura e accoglienza che non si contamina con il dolore, ma che, proprio per questa ragione, offre all’altro la possibilità di essere visto, ascoltato e accolto senza giudizio.

Questa distinzione è fondamentale per chi, come noi, lavora sulla presenza e sull’attenzione ferma. Quando entriamo nella sofferenza dell’altro, dimentichiamo che il ruolo non è quello di fondersi con essa, ma piuttosto di rimanere saldo come una montagna, o come il cielo che accoglie le nuvole, ma che non ne è toccato. Ciò non significa essere freddi o distanti; al contrario, richiede un profondo calore umano. Ma questo calore nasce dal riconoscere che la vera cura non consiste nel condividere la sofferenza, bensì nel creare uno spazio sicuro, dove l’altro possa ritrovare la propria forza e il proprio equilibrio.

In questo senso, praticare la compassione è un atto che richiede disciplina. È facile cadere nella trappola dell’ego, voler essere il salvatore, colui che risolve i problemi degli altri, e te lo posso dire perché l’ho vissuto per molti anni. Ma questa dinamica non solo alimenta il nostro senso di importanza, bensì anche l’idea che per guarire si debba passare attraverso un fardello condiviso.

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Eppure, come possiamo aiutare l’altro se ci troviamo in bilico, consumati dalla sua stessa sofferenza?

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Il primo passo è ricordare che la sofferenza è, in ultima analisi, un prodotto della mente confusa, delle “nuvole” che oscurano la nostra visione naturale. La mente del Buddha, la mente pura, resta sempre limpida, anche di fronte alle tempeste più violente. Questa limpidezza è ciò che possiamo offrire all’altro: non la condivisione del suo dolore, ma la stabilità e la chiarezza di chi ogni giorno si impegna per radicarsi nella propria natura profonda.

Essere di sostegno non significa caricarsi di pesi, ma ancorarsi nella propria consapevolezza, per diventare un punto di riferimento. Offrire cura senza affondare è un’arte che richiede pratica: ascoltare senza giudicare, comprendere senza assorbire. Quando siamo in questo stato di presenza attenta, possiamo permetterci di essere vulnerabili senza temere di essere travolti. Questa è la compassione nel suo senso più puro: un incontro tra cuori aperti, dove la sofferenza dell’altro è vista con chiarezza, ma non ci risucchia. È offrire uno spazio dove l’altro può ritrovare la sua centratura, senza che noi perdiamo la nostra.

C’è un’enorme forza nella delicatezza di chi sa restare presente senza essere toccato dal vortice emotivo. Questo è il dono della compassione: la capacità di vedere l’altro nel suo dolore, restando però radicati in quella serenità che permette a entrambi di trovare pace. Così, invece di soffrire insieme, possiamo camminare verso una liberazione condivisa.

Un abbraccio dal mio Spazio Interiore. Andrea

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