Questa mattina ho partecipato al funerale di un caro amico. Un momento di addio che porta con sé inevitabilmente riflessioni profonde, sul senso della vita e sull’inevitabile incontro con la perdita. Guardandomi intorno, ho notato un aspetto che mi colpisce ogni volta in queste circostanze: il modo in cui spesso, senza accorgercene, rischiamo di trasformare un gesto di sostegno in un’ulteriore fonte di peso per chi già porta il carico della sofferenza.
Molte persone, nel salutare i parenti o i cari del defunto, tendono a riversare il proprio dolore, le proprie emozioni, quasi travolgendoli con un’onda che invece di alleviare, aggiunge ulteriore peso. Il mio non vuole essere un giudizio, ma una constatazione. È naturale sentirsi scossi e cercare conforto nel condividere, ma questa dinamica mi porta a riflettere sull’importanza dell’equilibrio personale quando si vuole davvero offrire un sostegno.
La compassione è la chiave. Ma cosa significa davvero essere compassionevoli? Non si tratta di entrare nella sofferenza dell’altro, facendola propria, né di lasciarsi travolgere da quel dolore che ci ricorda le nostre fragilità. Compassione, nella sua essenza più autentica, significa essere presenti nella pienezza, mantenendo il proprio centro, in modo da poter offrire un’energia stabile, uno spazio sicuro in cui l’altro possa trovare rifugio.
Essere compassionevoli richiede prima di tutto un lavoro su di sé, una ricerca costante di equilibrio interiore. Non si può portare sostegno autentico se siamo noi stessi sopraffatti dal nostro carico emotivo. Questo non significa reprimere o negare il proprio dolore, ma riconoscerlo, accoglierlo e trasformarlo, per poi avvicinarsi all’altro con leggerezza e presenza.
Ho pensato a quanta forza risieda nel silenzio. Un silenzio non vuoto, ma pieno di consapevolezza. Non c’è bisogno di parole eccessive o di gesti grandi per confortare; a volte, una mano posata delicatamente sulla spalla, uno sguardo sincero o il semplice stare accanto senza invadere è ciò che davvero può fare la differenza. In questo silenzio, c’è spazio per l’altro, per il suo dolore, senza che diventi il contenitore del nostro.
Questa capacità di essere lì, senza portare altro se non una presenza solida e amorevole, è il cuore di una compassione corretta. È un atto di profonda umanità e spiritualità, che non solo aiuta chi soffre, ma alimenta anche la nostra stessa crescita interiore.
Ognuno di noi può imparare a coltivare questa qualità. Forse, il prossimo addio, il prossimo momento di difficoltà condivisa, sarà l’occasione per sperimentare questo nuovo modo di esserci: non come portatori di un peso, ma come fari di luce e quiete.
Buon viaggio Matteo 🤍
Un abbraccio dal mio Spazio Interiore.
Andrea